È curioso che nell’annus horribilis che ha messo alla prova, se non compromesso, molte relazioni, costringendoci alla lontananza e al distacco, Amici di Don Bosco abbia incentrato molte riflessioni proprio sulle relazioni e le correlazioni. Per chiudere il cerchio di questo flusso di narrazioni, ne abbiamo intrecciata una nuova, mettendo in dialogo l’esperienza fatta con il gruppo degli AAA con quella di Legàmi adottivi, un’associazione di persone adottate che è anche uno spazio di confronto tra chi si occupa, a vario titolo, di adozione e che ha come campo di interesse principale le relazioni e le dinamiche che le persone adottate adulte vivono con gli amici, i compagni di vita, i figli.
Come ha suggerito Devi Vettori, presentando il gruppo in occasione dell’incontro online dello scorso 19 dicembre, “desideriamo spostare l’asticella dall’essere percepiti, considerati, visti ma soprattutto sentirci solo figli al diventare adulti, protagonisti attivi , pensanti e consapevoli su quanto l’adozione influisca e condizioni le relazioni di oggi.”
Rivolgersi agli adulti e parlare di adozione quando l’età non è più quella infantile ha lo scopo di mettere il luce che l’adozione è un processo che accompagna gli adottati lungo tutto l’arco della vita. Avere maggiore consapevolezza della propria storia adottiva consente di affrontare meglio alcune situazioni, soprattutto quando si intraprendono relazioni nuove, da adulti, scelte, fuori dal nucleo familiare.
A partire da alcune parole chiave, durante l’incontro sono state suggerite delle piste per esplorare la relazione con il partner e con i figli.
Si è parlato di abbandono, perché è un vissuto che si ripropone e che rende gli adottati vulnerabili. È una ferita aperta che mostra la fragilità di fronte alle scelte operate da altri. “E’ una fragilità con cui si fa i conti fin dall’adolescenza, dai primi amori”, commenta Juliana Papurello. “Spesso si soffre preventivamente della paura di essere abbandonati, magari lasciando prima o boicottando la relazione con l’altro in modo da non subire l’abbandono. O semplicemente senza mai investire nell’altro: se sono solo, nessuno mi lascia. Oppure si rimane vittime del desiderio di una relazione simbiotica e morbosa col partner, spesso idealizzato.”
Occorre prestare attenzione al fatto che nella relazione ci sono due persone e quindi non essere “adozione-centrici”, lasciando spazio e rispettando i tempi del partner.
E a proposito di tempo, si è riflettuto sul fatto che sia una variabile da considerare con molta cura. C’è un tempo per narrarsi e si deve avere la libertà di sceglierlo senza forzature o costrizioni. Nel caso di un’adozione internazionale i tempi non sempre sono controllabili: i tratti somatici, il colore della pelle raccontano più di quanto si vorrebbe e possono anticipare il tempo della narrazione, mentre ciascuno dovrebbe poter decidere se, quando e cosa raccontare della propria storia. Alessandro Antonelli ha distinto questo tempo “esterno” da quello “interno”, più caratteristico delle adozioni nazionali: “Il figlio di un’adozione nazionale ha verosimilmente caratteri somatici non stravaganti rispetto al contesto in cui vive. Ciò gli permette di nascondersi e mimetizzarsi, se vuole. Egli è quindi attore. Può decidere se tacere o narrare la propria storia, ma anche decidere quando e per quanto tempo eventualmente tacere, quando, quanto e a chi eventualmente narrare. È quindi tendenzialmente in grado di dettare e gestire dall’interno della propria coscienza i tempi del racconto della propria storia adottiva, delle proprie origini, del sé più intimo”.
Non rispettare i tempi talvolta può essere una decisione presa quasi inconsapevolmente dai genitori nel tentativo di proteggere il proprio figlio. Il punto è che i genitori spesso non riconoscono che il figlio è diventato un adulto, privandolo della responsabilità che gli spetta.
Però in questo atteggiamento c’è anche da parte dei genitori il desiderio di condividere il loro tempo e la loro storia adottiva, ovvero il loro percorso di adozione. “Per un figlio adottivo”, aggiunge Maria Forte, “sentire che non c’è solo la propria storia adottiva, con tutte le sue implicazioni, ma che c’è anche una storia ‘parallela’ alla propria, ovvero quella dei genitori adottivi, un percorso fatto di attesa, aspettative, paure, sogni, rielaborazioni e fatiche, è importantissimo per costruire la storia della propria famiglia adottiva. Ecco quindi che la narrazione della storia dei genitori adottivi può diventare fondamentale integrazione nella storia del figlio adottivo.”
Parlando di narrazioni familiari, il riferimento non può che essere all’ “alfabeto delle relazioni”, come lo ha definito Vittorino Andreoli: trovare, individuare, cercare al proprio interno le parole giuste per parlare di adozione e costruire significati.