Da piccola osservavo con stupore tutto infantile le immagini dell’Annunciazione, e mi pareva che questo fosse in assoluto il più bello tra tutti i soggetti. L’umile disponibilità di quella giovane fanciulla, flessibile nel senso etimologico del termine, pronta a farsi portatrice di vita, mi pare anche oggi il più grande tra i miracoli.
Attendere l’annuncio, poi, significa mettersi in ascolto per accogliere il proprio destino e prendersene cura. La maternità è innanzitutto disponibilità ad accogliere la vita e si manifesta in molti modi. L’annuncio arriva improvviso. Non hai tempo per ragionare. È sempre questione di fede.
Anche per noi, mio marito e io, fu il tempo di un respiro, di uno sguardo, di un passo timoroso. E tutto cambiò. Un’altra vita entrò in noi e si fece spazio nell’egoismo che ci proteggeva. Fu allora che la paura ci prese, sperduti in quegli occhi troppo grandi, in quelle mani troppo piccole.
Fu allora che tutto cominciò.
È una storia semplice, una storia come tante, fatta di attese, di abbracci, di rabbia, di domande senza risposte.
È la storia di ognuno di noi, abbandonato su questa terra da chi ci creò.
È la storia del distacco, delle ferite da taglio che ci portiamo dentro, dei “perché-macigno” che sulle spalle ci piegano verso terra e della volontà di alzare la testa verso il cielo per inebriarci di un canto alla vita.
Nel testo biblico, il Verbo è l’inizio di tutto, di ogni creazione: la Parola si fa carne. La forza della parola è la forza della poesia che la vita porta con sé in ogni sua manifestazione. La prima parola che Vaidehi pronunciò dopo il nostro incontro non fu “mamma” ma “Chalo!”, che nella sua lingua madre è un invito ma anche un incoraggiamento a guardare avanti: “Andiamo!”.
Questo stesso invito Vaidehi lo rivolse sette anni dopo alla piccola Sayali, quando timidamente si accingeva a lasciare un mondo conosciuto per avviarsi verso l’ignoto. “Chalo” per noi è la Parola.
Andare avanti significa accogliere con fiducia il respiro del tempo, il vento che porta semi nuovi nel solco della vita e produce nuovi frutti. A livello semantico, il “solco” (rappresentato dal nome Vaidehi-Sita), in rapporto analogico con la piega e la ruga, è la ferita necessaria affinché il miracolo della vita si compia; così il vento, il polline, il respiro rappresentano il soffio vitale, lo spirito santo inteso come amore, l’atman, che fa germogliare un nuovo “fiore” (significato del nome Sayali) ad ogni primavera, una ciclicità naturale scandita dal tempo del rosario, elemento simbolico anche per l’induismo e il cui significato letterale è “ghirlanda di rose.
Le parole creano legami, sono essenziali nel rapporto con l’altro-da-noi, sia questo un figlio biologico o adottivo; la parola salva, lenisce dolori, getta ponti per poter continuare anche davanti al baratro. Quando la vita germinata nel grembo di una donna si traduce nel cuore di una coppia, essa porta con sé parole che le appartengono, parole che nulla e nessuno può cancellare. Adottare un figlio è aprirsi a una creatura che entra in te e ti ri-genera, è accogliere l’altro da sé sfidando le leggi dell’amore genetico, accettare per tutta la vita di amare in modo viscerale ciò che non ci appartiene. Per far questo chi attende un figlio adottivo dovrebbe imparare ad ascoltare con rispetto il suo passato senza pretendere che egli abbia solo due tempi: il presente e il futuro.
Sonia Rossi
(testo tratto dall’Introduzione
alla raccolta di poesie “Chalo”
dedicata a Sayali e Vaidehi)