Abbiamo iniziato con la relazione per eccellenza, quella tra genitori e figli. E quando si parla di adozioni le sfumature si fanno più importanti e le figuri genitoriali di cui tenere conto aumentano.
Giovanni Berton, Francisca Noha Vairo Scaramuzza e Aroti Shrimati Bertelli del gruppo di adottati adulti AAA ci hanno condotto in una riflessione a cominciare da “quanti e quali” genitori entrano in gioco.
Chi c’è, deve sempre fare i conti con chi non c’è (più)? Ci sono alcune persone più presenti, altre più sfocate. Ci sono papà che non si sa neppure se sanno di esserlo. Ci sono madri biologiche che riaffiorano nei ricordi o nell’immaginario in alcuni momenti salienti, come ad esempio quando si fa direttamente o indirettamente esperienza della maternità. O durante le feste, gli anniversari, i compleanni.
Quello che è stato ribadito con forza è un concetto di famiglia che espande, non esclude. “Ci sentiamo dire che genitore è chi cresce, ama, si prende cura. Ma questo esclude un seppur breve tratto della nostra vita che sono le origini”, ha sottolineato Aroti.
Ai papà, che tante volte rimangono sullo sfondo, abbiamo voluto dare voce e spazio con l’esperienza di Enzo Alfano, papà di una ragazza di origini indiane e di un ragazzo di origini filippine, che ha evidenziato come oggi sia impensabile non tenere conto della storia degli adottati: nel 2019, infatti, l’età media dei bambini in adozione internazionale è stata di 6,6 anni e non si può pensare di trascurare una fetta così importante della loro vita.
La ricchezza delle narrazioni condivise sabato scorso è stata anche la varietà delle esperienze. “Mamma io l’ho detto a una sola persona nella mia vita, così come papà”, ha detto Giovanni, adottato a pochi mesi. Mentre Aroti, adottata all’età di 9 anni, ha faticato a riconoscere nelle persone che l’hanno adottata i suoi genitori: non poteva fare finta che tutto fosse immediato e normale, perché sarebbe stato come tradire il suo passato e chiamarli “mamma” e “papà” sarebbe stato come negare una parte di sé di cui conservava un ricordo molto vivo.
Quanto è stata inclusa la famiglia d’origine nella loro storia? E come la narrazione del passato delle origini ha influenzato il legame con la famiglia adottiva? A casa di Giovanni è stato molto naturale parlarne (“sentivamo di essere un dono l’uno per l’altro”), mentre per Francisca “non parlarne ha facilitato in un primo momento la costruzione di una relazione più intima, più nostra”. Ma crescendo ha avvertito una mancanza e il bisogno di colmare dei vuoti.
Per Aroti una delle motivazioni del fallimento della sua storia adottiva risiede proprio nell’impossibilità di condividere i ricordi con i genitori adottivi e nella loro scelta di recidere il passato e metterlo a tacere: “Preferisco un dialogo scomodo che un silenzio che parla da sé”.
Per una buona cultura dell’adozione è indispensabile il passaggio da “ti ho amato come se fossi mio figlio a ti ho amato perché sei mio figlio” o meglio ancora con il tempo verbale al presente: “ti amo perché sei mio figlio”
Il focus è sull’amore incondizionato. Giovanni e Francisca hanno raccontato di essersi sentiti amati “perché”, non “come se”, cioè in quanto figli.
Ed è vero anche nella direzione inversa? Cioè per i figli adottivi è uno sforzo, un impegno, una costrizione amare i genitori adottivi “come se fossero” le persone che li hanno messi al mondo?
Per Giovanni e Francisca è stato naturale, tanto che trovano superfluo l’aggettivo “adottivi”.
Il “come se” affermato in molte narrazioni di genitori adottivi nasconde forse un tentativo di sentirsi legittimati nel ruolo genitoriale? O piuttosto, come ha individuato una dei partecipanti, è un modo per ribadire il senso di appartenenza? O ancora è una sorta di autoconvincimento per conferire autorevolezza alla relazione? Come ha sottolineato una delle mamme presenti “Io mi sento mamma indipendentemente dal fatto che mio figlio mi riconosca questo ruolo. Così come sentirsi figlio dipende da lui, sentirmi mamma dipende da me”. E di nuovo ritorna il motivo dell’amore incondizionato: “ti amo anche se dovessi scegliere diversamente dall’essere nostro figlio”.
Con l’adozione insieme al figlio, nascono una mamma e un papà. Il bambino è una risposta nuova a un percorso nuovo. Ed è un percorso che dura tutta la vita. Anche perché le differenze somatiche costringono a raccontarsi e a ribadire l’appartenenza, da piccoli così come da adulti, e anche nei momenti in cui non ci si pensa. Francisca ha raccontato che da grande, accanto al padre disabile, aveva l’impressione di essere percepita come la sua badante (“Anzi mi è capitato, anche in un momento drammatico come quando era ricoverato in ospedale per una malattia terminale”) o la sua fidanzata straniera.
Le differenze devono essere riconosciute e valorizzate, accettando che per i figli adottivi ci sia una sorta di danza tra le appartenenze e che a momenti di orgoglio e rivendicazione delle propri origini se ne alternino altri in cui questa diversità venga messa in un cassetto per il bisogno di sentirsi un po’ “trasparenti”.
Infine, si è parlato di due sentimenti molto presenti nel racconto dell’adozione, ovvero la rabbia e a gratitudine.
La rabbia verso i genitori biologici per la ferita dell’abbandono e verso i genitori adottivi per i silenzi e i segreti tenuti nascosti. Ma anche la trasformazione di questa rabbia in energia, impulso vitale e comprensione, nella consapevolezza che l’abbandono non è facile neanche per chi lo mette in atto.
Per quanto riguarda la gratitudine, è quasi un sentimento indotto per il fatto stesso di essere stati adottati e quindi “salvati”: quanto questa riconoscenza influenza il rapporto genitore-figlio? Quanto pesa e sbilancia la relazione?
Enzo ha risposto, rilanciando con un invito alla riflessione sul fatto che sia importante chiedersi soprattutto “chi” salvi “chi” attraverso l’adozione.
A questo proposito, facendo tesoro della sua pluridecennale esperienza con i ragazzi del carcere minorile, il nostro Presidente Don Domenico Ricca ha chiuso il pomeriggio commentando che l’adozione non è di per sé un’esperienza “salvifica a priori”; ha una dimensione realmente costruttiva solo se tutti i componenti della relazione (genitori e figli) riescono a costruire insieme un progetto di famiglia in cui il figlio riesca a far germogliare tutte le sue potenzialità. Quindi nessuno può o deve salvare nessuno, ma ci si può salvare solo tutti insieme.