Proviamo a riprendere qui alcune delle riflessioni emerse nel corso dei due lunghi e densi incontri di CorRelazioni dedicati alle relazioni di coppia.
“Dove finisco io? Dove inizia l’altro?”, si sono chiesti gli AAA. Negli adottati spesso l’identità frammentata si traduce in disorganizzazione affettiva. “L’io strutturato del partner contrapposto all’io destrutturato dell’adottato crea disfunzionalità nella relazione di coppia”, puntualizza Simone.
Se nella fase dell’innamoramento, momento magico e sospeso in cui c’è identificazione reciproca, c’è idealizzazione ed è dunque più semplice stare, le cose si fanno più complicate quando si deve provare a costruire una normalità nel quotidiano. È complesso entrare e stare in una relazione quando “non si hanno punti di riferimento di chi tu sei. Se non sai chi sei, non puoi sapere cosa sai (sai fare, sai essere) veramente”. La sensazione è quella di sentirsi non finiti e sbagliati a priori.
Si è parlato di identità dell’adottato continuamente dispersa, ma Aroti ha individuato 3 identità nella relazione: i due partner e la relazione stessa come nuova identità in cui entrano in gioco entrambi.
“Tutti siamo tormentati e fragili, nessuno può sentirsi risolto”, ha precisato in merito alla sensazione di indefinitezza identitaria.
È pur vero che l’abbandono come lutto, l’attaccamento insicuro, la relazione manipolata che hanno a che fare con l’esperienza dell’adozione possono influenzare la relazione di coppia.
“Fin dall’inizio gli altri hanno scelto per me”: si riproduce questo schema nelle relazioni, con il rischio per la persona adottata di abbandonarsi alle decisioni dell’altro/a. L’immagine che Simone suggerisce è quella di “sentirsi in balia dell’altro. Si intrecciano disfunzionalità legate all’abbandono e il fattore volontà: fino a quando vorrà stare con me? Non sono mai sicuro della presenza dell’altro. Sono portatore malsano di ossessività, cosa che genera ulteriore attaccamento o al contrario distacco. Ho una capacità di accettazione dell’altro di gran lunga superiore a quella che ricevo.”
Distacco, mancanza, attaccamento e la fatica del distacco a qualunque costo. Il tradimento e la fedeltà incondizionata sono considerate due facce della stessa medaglia.
“È difficile trovare un equilibrio”, continua Aroti. “Occorre districarsi e fortificare, avere capacità di resistere e resilienza. Tutto questo può anche spaventare il partner. Io avevo paura di travolgere il partner, di distruggerlo con il mio vissuto. Per questo ho dovuto prendermi il tempo per avere la sicurezza di potermi fidare e affidare. Noi persone adottate abbiamo bisogno di sentirci al centro, non per manie di protagonismo, ma abbiamo bisogno di sentire che la nostra storia è presa in considerazione e che ne ne ha cura. Quando ci si sente trasportati, non trascinati, solo allora ci si può concedere di essere fragili”.
Con grande coraggio e profonda analisi, l’adozione è stata definita “un trauma”. “Non c’è consapevolezza che sia un trauma”, prosegue Aroti. “È brutto essere rifiutati.”
Mentre altri tipi di esperienze, quella della violenza, della guerra, dell’abuso sono percepiti a livello collettivo come traumi, quella dell’adozione non ha lo stesso riconoscimento nell’immaginario. E a questo spesso si associano la leggerezza, lo sminuimento, gli stereotipi, il razzismo con cui gli adottivi sono costretti a fare i conti e che aprono ferite.
E senza dubbio minacciano l’autostima. Simone ricorda di non essersi mai sentito all’altezza, ma anche di essere stato “fortunato e bravo nel trovare partner sensibili”. Oggi allo struggimento del passato per la fine di una relazione si è sostituito un dolore dalle sfumature più tenui. Anche perché nella relazione ha incorporato l’importanza di comprendere la differenza di esperienze e di modelli di riferimento.
Francisca ha raccontato di aver sperimentato e rivissuto la ferita abbandonica quando si è trovata a lasciare il partner: la difficoltà di lasciare si era tradotta nell’impossibilità di terminare una relazione nella quale non si sentiva a suo agio e non voleva stare, ma era comunque preferibile rispetto all’infliggere all’altro il dolore di un abbandono.
“Le persone ferite tendono a ferire, fanno male perché hanno provato il male”, ha commentato Aroti aprendo una prospettiva diversa.
La persona adottata ha alle spalle due tipologie di famiglia, quella biologica e quella adottiva. Qual è dunque il modello a cui ispirarsi o non ispirarsi? Per Aroti è importante “provare a essere qualcosa di altro rispetto ai due modelli familiari di riferimento. Integrare i due modelli familiari e lasciare spazio per la terza identità che non trova spazio né qui né là”. Giovanni parla di una “doppia legacy”, un’eredità doppia che proviene dalla famiglia adottiva e da quella d’origine, verso la quale si dimostra curioso. Ma il suo punto di riferimento, pur con le inevitabili imperfezioni, sono i suoi genitori adottivi, tanto che precisa: “I genitori non sono perfetti e non devono esserlo.”
Indubbiamente l’esperienza della separazione o dell’abbandono si traducono in un bisogno di stabilità e di rassicurazione nell’adottato. Allora che dimensione assume il rapporto con la verità nella relazione di coppia? Il bisogno di verità, di sincerità si lega al bisogno di verità relativo all’inizio della propria storia?
Per Francisca il rapporto con la verità è cambiato nel tempo: ha dovuto gestire segreti, racconti parziali e verità nascoste e ha capito che questa mancanza di trasparenza è ciò che non vuole ripetere nella relazione di coppia. Aroti ha dovuto “testare” la pazienza del partner per accettare la possibilità che venissero chieste cose scomode o ovvie. Spesso si è gelosi del proprio vissuto e si vuole attendere di trovare un orecchio e un cuore pronti ad accoglierlo per lasciarlo andare e farlo depositare.
E nuovamente nella ricerca del partner un richiamo all’identità: come si è visti dai propri “conterranei originali”? Giovanni aveva suggerito “Né carne, né pesce. Forse sushi?!”.
La loro percezione influisce sulla costruzione identitaria dell’adottato. Se parlando di disgregazione emotiva e frammentazione identitaria si era parlato del non sentirsi completamente finiti, Giovanni azzarda: “Forse neanche iniziati”? Ma inaugura anche una prospettiva nuova: non finito significa in divenire, significa avere confini fluidi e porosi che aprono a nuove possibilità da esplorare.
Si è parlato poi di errori da non ripetere, di ciò che si desidera in una relazione, di legami con le radici e di rapporto con la cultura in cui si è cresciuti.
Ma a molti dei genitori e delle coppie che hanno partecipato a questi due incontri una domanda si è fatta spazio nella testa: come possono i genitori adottivi essere di aiuto per i loro figli? La risposta è stata univoca: dimostrandosi pronti a lasciare la porta aperta. Non sempre la persona adottata ha voglia di rispondere subito di fronte a un’offerta di aiuto e di ascolto. Ma sapere che la porta è aperta è un incoraggiamento a fare ritorno.