In occasione della Giornata internazionale di commemorazione della tratta degli schiavi e della sua abolizione, celebrata il 23 agosto, suor Maria Antonietta Marchese, per molti anni missionaria in Benin, ha rilasciato un’intervista a Vatican News per raccontare l’esperienza della casa famiglia “Laura Vicuña” di Zogbo, un quartiere di Cotonou, che ogni anno ospita circa 400 bambine di età compresa tra i 6 e i 17 anni, sottratte al traffico. E per inquadrare la sua testimonianza nel quadro più ampio di un fenomeno che coinvolge ogni anno 40 milioni di persone – di cui 7 su 10 sono donne e ragazze – che vivono in condizione di totale sfruttamento: “un flagello che ferisce la dignità dei fratelli e delle sorelle più deboli”, come ha definito Papa Francesco la tratta di esseri umani e i crimini che porta con sé, dal lavoro forzato, alla prostituzione, al traffico di organi.
Di questi, quasi 10 milioni sono bambini e adolescenti, costretti in stato di schiavitù, venduti e sfruttati principalmente a fini sessuali e lavorativi.
Che cos’è la schiavitù oggi? Che cos’è lo sfruttamento oggi dal suo punto di vista?
R. – È il fatto di privare le bambine dei loro diritti, della famiglia, della salute, del divertimento, della possibilità di essere autonome e di venderle ad altre persone dietro compenso, in modo che abbiano una vita veramente di dipendenza assoluta dal cosiddetto padrone.
Quindi la schiavitù non è una cosa del passato?
R. – Sì, in Benin esiste nel senso che viene considerata una caratteristica culturale che un tempo era a beneficio dei bambini, quando il piccolo veniva tolto alle famiglie più povere e affidato a famiglie un po’ più benestanti, ma andava a scuola e aveva un avvenire. Poi dagli anni ’70-80 è diventata una vera schiavitù. Nel senso che non è più a beneficio del bambino, ma a beneficio delle famiglie che così hanno una manodopera a costo zero e considerano questi bambini, specie le bambine, una loro proprietà, quindi spesso le bambine non riescono più a ricordare neanche l’origine della loro famiglia. A me è capitato di cercare le famiglie, perché quando qualche bambina riusciva a scappare da queste situazioni, la polizia dei minori ce le affidava e noi cercavamo anche di ritrovare la famiglia. A volte era facile, a volta era difficile, a volte le bambine erano bene accolte, a volte no e quindi esiste ancora purtroppo questo questa forma di schiavitù.
Il Papa parla nell’età contemporanea di una mercificazione dell’essere umano che ne svilisce la dignità, non siamo più esseri fatti a somiglianza di Dio, ma siamo oggetti. Lei è d’accordo su questo concetto?
R. – Purtroppo è esatto. Io ricordo casi che sono successi a me. Quando arrivavano delle bambine e noi andavamo a cercare il loro villaggio di origine, a volte la famiglia ci diceva che avevano pagato 5 euro e avevano ricevuto un pezzo di stoffa per dare via la loro bambina, di cui poi non conoscevano assolutamente la destinazione. Quindi, sì, per tanti è una mercificazione: alcuni prendevano i soldi tutti all’inizio, altri un po’ per volta andando a riscuotere quello che secondo loro era il valore della bambina,
Quanto riesce a fare la vostra opera, la casa famiglia, quanto riescono a fare i Salesiani in questo mare immenso che è uno Stato come il Benin?
R. – Il problema è soprattutto delle bambine. In particolare noi, ma non solo, riusciamo a dare un futuro a parecchie di loro per fortuna. Le avviamo agli studi, diamo loro una possibilità di difendersi, anche se tornano al villaggio lasciando i nostri recapiti. Ma le persone per fortuna iniziano a sensibilizzarsi al valore dei bambini. Lentamente, ma le cose stanno cambiando. Noi siamo riusciti a recuperarne parecchie, certo non tutte, perché quelle che vengono da noi sì, ma tante non vengono e restano schiave delle famiglie, anche purtroppo di famiglie credenti che pensano che, se non le maltrattano troppo fisicamente, hanno il diritto di tenerle.
Una storia bella di una bambina che è passata da voi e che è andata avanti, se la ricorda? Può raccontarla?
R. – Certo. Una bambina che io ho accolto a sei anni, che sono riuscita a portare da noi. Lei, dopo una lunga storia di sofferenza, si è riconciliata col padre che l’aveva venduta. Ha studiato ed è diventata infermiera, seguita sempre da noi e poi, l’anno scorso, mi ha detto che si era sposata e si è creata una famiglia ed era riuscita soprattutto a perdonare il papà che l’aveva venduta quando lei aveva 6 anni assieme al fratellino. Non è l’unica storia… ce ne sono tante per fortuna di bambine che riescono a formarsi una famiglia e che soprattutto mi dicono: “Mai cederò la mia bambina”, perché hanno provato quello che vuol dire.