Quando gli adottivi fanno sentire la loro voce, è tutto immediatamente più vivo ed efficace: le condivisioni di adottati adulti durante il 16° meeting globale sui servizi di assistenza ai bambini, organizzato dall’ICAB – Intercountry Adoption Board, sono state l’occasione più attesa e partecipata e hanno fornito suggestioni, riflessioni e punti di vista estremamente utili per comprendere cosa significhi un’adozione.
Jeannie Glienna, adottata di origini filippine negli Stati Uniti, nel suo intervento “Il viaggio adottivo: sentieri paralleli di verità” ha posto l’accento sulle due facce della medaglia che essere adottati comporta, ovvero conciliare l’essere una persona non voluta e voluta al contempo. E anche sulle differenze nella famiglia adottiva tra la sfera pubblica e quella privata: se all’esterno l’immagine era quella di una famiglia amorevole di cui Jeannie era parte, dall’interno la sua percezione era quella di isolamento, abuso, violenza. Ha scoperto tardi la sua adozione, mentre tutti i familiari e le persone che gravitavano attorno alla famiglia ne erano a conoscenza. Ha vissuto sulla propria pelle la pratica del whitewashing, ovvero della “sbiancatura” della cultura filippina per un’assimilazione forzata alla società di accoglienza.
“Mi sono sentita per tutta la vita come gli altri mi hanno trattata”. E continua: “Dovevo essere grata per l’opportunità di essere stata adottata e lo ero, ma ho desiderato per lungo tempo di essere stata lasciata nella mia vita originaria. Il punto non è cosa hai, ma cosa senti che ti manca.”
Avrebbe dovuto sentire amore e sicurezza nella famiglia adottiva, ma ha trovato maggior conforto nel supporto di professionisti esterni. A questo proposito, suggerisce che siano sempre più attive le collaborazioni con organizzazioni che supportano la salute e il benessere degli adottati e con professionisti specializzati in adozione.
“Dove sono adesso e cosa ho fatto fino ad ora è stato fortemente influenzato dall’essere adottato”, commenta Sam Gibb, adottato di origini filippine in Australia. Cresciuto in una comunità prevalentemente bianca, ha realizzato con il tempo di essere asiatico e ha sperimentato in adolescenza i primi conflitti con l’identità: natura contro cultura. “È difficile imparare ad amare i tuoi tratti somatici quando sei l’unica persona che conosci che li ha”.
Sam ha sperimentato quelle che è riuscito a concettualizzare come una serie di sfide. Innanzitutto il sentirsi un intruso e passare la vita come un “vagabondo sociale” e un camaleonte, con fasi di imbarazzo e vergogna rispetto alla propria identità etnica e culturale.
Spesso la rabbia verso un individuo (come, ad esempio, un genitore biologico) diventa collettiva e si estende a tutta una comunità. Ci sono fasi nella propria storia in cui un adottivo vuole prendere le distanze da tutto ciò che attiene alla cultura di origine. E altre in cui si ha voglia e bisogno di fare ritorno.
Un altro aspetto riguarda l’affidabilità: la sua natura riservata e persino misteriosa e la sua personalità diffidente sono, a suo parere, molto legate al suo vissuto adottivo e alla sua storia.
L’ultima grande sfida è quella della difficoltà per un adottivo di trovare aiuto nel posto giusto al momento giusto.
Quali suggerimenti? Innanzitutto quello di incoraggiare più adottati a prendere la parola e a fornire il loro sguardo in programmi governativi e servizi di supporto; poi quello di continuare il dialogo sul benessere degli adottivi e prevedere un supporto economico per quanti vogliano affrontare il viaggio di ritorno. Questo viaggio per molti non contempla la ricerca della famiglia biologica, piuttosto la riscoperta dei luoghi dove si è stati e dove la famiglia di origine ha vissuto.
A livello macro, occorre incorporare specifici cambiamenti di politiche e obiettivi formativi, coinvolgere gli adottivi nella formazione, promuovere un’informazione centrata sugli adottivi e la competenza sull’adozione a scuola, nelle pratiche professionali, nei programmi giovanili.
Le famiglie adottive cosa possono fare? Innanzitutto promuovere una riflessione critica sull’identità e le fasi di sviluppo del bambino. A cominciare dall’esplorazione e dal riconoscimento dei propri preconcetti, poi evitando di minimizzare, di far ricadere la responsabilità sui propri figli e aiutandoli a scongiurare il razzismo interiorizzato, offrendo loro il linguaggio per capire e riconoscere il razzismo.